Opera Uno

Intervista con Isichiara

Isichiara risponde ad alcune domande sul suo romanzo “Il filo di seta” e sulla propria attività letteraria.

Come è nata l’idea di scrivere il romanzo “Il filo di seta”?
L’idea è scattata una sera, quando ho saputo che un politico, parlando di suicidi, aveva affermato che “in Grecia ce ne sono stati 1725, in Italia ‘solo’ 471”. Ho ricostruito questo episodio nel romanzo, cambiando il nome del politico, perché una tale impudenza sulla sua bocca mi è sembrata un insulto al dolore di chi soffre così tanto da non poter sopportare più di vivere e di quello di coloro che gli stanno intorno, che ho sentito di dover fare “qualcosa”… Ho preso così lo spunto da questa tematica per ideare la trama del mio romanzo..

Dove è ambientata questa storia? E quali sono i personaggi principali?
La storia è ambientata a Como, la città della seta e il personaggio principale è Ilaria, ma più di lei come persona i protagonisti sono la sua rabbia, l’insofferenza, l’intolleranza di fronte a un contesto politico completamente scollato da quelle che sono le piccole realtà quotidiane, incapace di rispondere (e lo abbiamo vissuto anche in contemporanea) alla tragedia di un’economia in ginocchio alla quale le banche chiedono rientri impossibili con indifferenza assoluta. Nel periodo attuale ci sono state delle risposte o almeno dei tentativi, sia pure appesantiti dalla solita burocrazia invadente, ma all’epoca del mio romanzo si è stati a guardare indifferenti aiutando “le banche” e non le “persone”. Protagonista è la voglia di Ilaria di scoprire se fosse possibile “fare” qualcosa , per “cambiare” qualcosa… Un personaggio principale è anche Lucio Ferro che arriva all’interno della “new age” ad assumere una dimensione luciferina. L’altro protagonista è Dante che rappresenta l’onestà istituzionale, la serietà professionale non disgiunta da una capacità rara di umanità. E poi c’è Fulvio Fonzi, l’ingegnere dell’Euratom con la sua storia personale, la stragrande intelligenza, la profonda preparazione che lo rende arrogante e insofferente verso l’ignoranza diffusa. E protagonisti infine sono alcuni mondi: quello universitario, quello politico (che ora mi sembra cambiato, con figure apparentemente meno violente, ma purtroppo, a mio avviso, troppo poco preparate alla difficile gestione della democrazia) e quello religioso, torbido, contraddittorio, non abbastanza rassicurante. Altre figure come quella di Ninni, il primo amore di Ilaria (per altro vero nella sua interezza) o dei vari docenti, o di Alessio o degli incontri occasionali sono funzionali alla storia senza rivestire una importanza particolare.

Il romanzo parla del dramma di una famiglia perseguitata da un personaggio potente. Si tratta di una storia inventata o ha preso lo spunto da fatti realmente accaduti?
Io sono figlia di un industriale della seta e non conoscevo la fabbrica di mio padre solo come principale sostentamento della nostra vita, ma la conoscevo in quella che era la sua realtà quotidiana, le sue macchine, il suo processo di produzione, perché la mamma ci ha insegnato sin dalla adolescenza (e di questo la ringrazio) la “religione” del lavoro e sin dai 14 anni d’estate ci mandava a lavorare nella fabbrica del papà. Facevamo “le resubbiatrici”, cioè coloro che rifinivano le pezze di seta togliendo tutti i fili inutili. L’industria della seta ciclicamente aveva delle crisi dovute a vari fattori che falciavano via via le realtà più deboli, risparmiando le meglio organizzate. La fabbrica di papà e noi tutti con lui, abbiamo superato varie crisi sino a che una lo ha messo in ginocchio, buttandolo in uno stato di depressione terribile, per cui l’inizio del romanzo rispecchia quello che “avrebbe potuto essere” (mio padre non si è ucciso) mettendo in luce alcune dinamiche conseguenti: l’enorme capacità organizzativa della mamma (laureata in chimica industriale come papà), il cambiamento dei loro rapporti, la frammentazione della famiglia… Io mi sono chiesta come avrei reagito se papà si fosse ucciso, ma la figura di Lucio Ferro (Lucifero), devo dire, è stata un’idea di un corsista del corso di scrittura creativa che ho ideato per l’Università Cattolica, funzionario di banca (che forse lo aveva “vissuto” in quel periodo terribile), la persona che ringrazio all’inizio del mio romanzo e che non ha voluto comparire come coautore ritenendo di aver fatto troppo poco nella complessità delle situazione in cui io poi ho trascinato il suo personaggio.

Ilaria, la protagonista del romanzo, reagisce alla violenza con violenza. Senza rivelare i dettagli della trama, che merita di essere scoperta e gustata dai lettori, può dirci quali sono le motivazioni che la inducono ad agire in prima persona?
Nel periodo di depressione del papà mia madre ci ha organizzati e, a volte, ero usata per recuperare i crediti, o anche per ammorbidire la banca. La mamma mi sceglieva perché ero la sua figlia più appariscente e a me riusciva più facile “ottenere”. Io barattavo la mia bellezza (ero più procace che bella) con l’indulgenza dei debitori e, in genere, riuscivo con quattro smorfie e assolutamente non di più, ad ottenere quello che era “giusto” io avessi. Questo rapporto mi stava maledettamente stretto. La debolezza maschile di fronte ad una bella ragazza mi disgustava. Io avrei voluto un rapporto paritario: era un loro dovere pagare i debiti o concedere una dilazione e per noi era una questione di vita o di morte. La Ilaria del romanzo, che nella frantumazione dei ruoli con la Gio era stata destinata ad ottenere la cancellazione del debito, lei con la pistola in mano e la Gio con la sua competenza legale, avevano finalmente realizzato una situazione paritaria, senza smorfie e adulazioni. Ilaria è la mia nemesi. Mai avrebbero ottenuto una soluzione “giusta, equa, subito”, se non così.

Nel romanzo vi sono riferimenti alla vita sociale e politica italiana di tempi passati ma non molto lontani. Cosa ha voluto comunicare ai lettori accennando a queste realtà?
Ho voluto comunicare “quella realtà”che io stessa scoprivo man mano sempre più profondamente documentandomi, vorrei poterle dire “per indurre una meditazione”, ma io non credo più che oggi, dove l’apparire è “il tutto”, un romanzo come il mio possa avere un ruolo di questo genere. Io sono laureata in pedagogia ed è chiaro che volente o nolente istintivamente pongo in quello che scrivo sempre il bisogno di “comunicare” per far riflettere, perché da quello che scrivo si “impari” qualche cosa. Io stessa indagando su quanto scrivo scopro una valanga di cose che mi fanno, a volte, atrocemente soffrire e, denunciandole, così brutalmente, credo prima di tutto di inimicarmi le case editrici che contano ma che, purtroppo, sia assolutamente tutto inutile.

Alla fine del romanzo Ilaria parte in aereo. È l’indizio di una continuazione della sua storia in un prossimo libro?
Sì, ed è già stato realizzato. È intitolato “Buenos Aires”. In quegli anni uno scrittore molto noto mi ha telefonato, con mio enorme stupore, per invitarmi a far parte del movimento politico che voleva creare. Mi ha detto che un mio corsista mi aveva “segnalato”. Eravamo agli inizi, io ero responsabile del gruppo scuola. Col tempo ci siamo accorti che la persona in questione era come tutti i politici, innamorato solo di se stesso ed era molto attento soprattutto a che nessuno mettesse in discussione la sua “autority”. Io pensavo in quel periodo a come avremmo potuto strutturarci soprattutto acquisendo competenze specifiche e attenzione alle varie realtà sociali. Tutti, con il tempo, si sono allontanati e il sogno del politico è naufragato nel nulla. Durante quel periodo si additava l’Argentina come colei che avesse risolto i suoi problemi interni. Io ho trasferito la mia voglia di verifiche ad Ilaria , con le conseguenti… delusioni.

Come definirebbe con un solo aggettivo il suo romanzo? Perché?
Forse “presuntuoso” perché certe realtà andrebbero approfondite con maggiore competenza. Ciò non toglie che “Buenos Aires” abbia superato la selezione tra i romanzi inediti nel premio “Città di Como”.

Parliamo adesso di lei come scrittrice: come e quando è nata la sua passione per la scrittura?
Molto presto. Scrivere per me è “un vizio assurdo”, un bisogno patologico. Le motivazioni principali sono tre. Innanzitutto per amore: ho scritto la vita di mio marito, “Un emigrante di lusso”, gli anni della grande avventura, ho scritto sulla prima moglie di mio figlio, “Un supermercato per Patricia”. Poi scrivo per capire. A volte sul giornale trovo dei trafiletti interessanti su fatti che mi piace capire come possano essere successi e che mi permettono di indagare mondi sconosciuti. Così sono nate “La collana di corallo” e “La rivolta dell’alfabeto”, ad esempio, che mi hanno permesso di indagare sul mondo dei terroristi. Infine scrivo per vendicarmi: quando una persona mi ferisce gli cucio addosso una storiaccia maledetta. Scrivo di getto, senza curarmi di piacere o meno a qualcuno, senza rispettare regole. È il mio momento di libertà assoluta. Avevo 16 anni, insegnavo, facevo il conservatorio e scrivevo per sfogarmi, come al solito, quando capitava qualcosa che mi feriva. Mia madre mi diceva che facevo troppe cose, rischiando di farle tutte male, mi ha chiesto di verificare il mio talento scribacchino con Buzzati che era il suo scrittore preferito e io gli ho mandato un mio racconto che parlava di un “concorso” di malvagità. Ho descritto questo antro dantesco dove ognuno rovesciava le malvagità più bieche e vinceva la storia di una ragazzina speranzosa, entusiasta, creativa che adorava vivere, a cui tutti facevano a gara per dirle “la verità” sulla vita: complicata, cattiva, deludente, bugiarda… e lei finiva per uccidersi e questa storia vinceva il concorso. Buzzati ha voluto conoscermi, mi ha invitata al “Corriere della sera” e mi ha detto che avevo talento. Scrivere dopo il giudizio di Buzzati voleva dire che mia madre sarebbe diventata il “giudice” anche di quell’ambito: tempi, temi, stili… Ho smesso di scrivere. Ho ricominciato a 40 anni con “Io, Giovanna” quando ero lontana da lei.

Qual è il suo rapporto con la lettura? Legge molto?
Leggo moltissimo su tre fronti: i grandi, i classici della letteratura (Thomas Mann con “I Buddenbrook” rimane il mito irraggiungibile), storia, geografia, politica, arte, narrativa del paese che ospita il romanzo che sto scrivendo, narrativa soprattutto femminile, tutto quello che mi capita, a volte nauseata, a volte ammirata.

Cosa si aspetta dalle sue attività nel campo della letteratura? Ha degli obiettivi particolari che le piacerebbe raggiungere?
Non scrivo avendo aspettative di successo. Certe volte penso che ne avrei paura perché molti si riconoscerebbero in quello che scrivo. C’è sempre in me quella rabbia, quella voglia di denunciare ipocrisie, infamità, bassezze, compromessi che certamente non aiuteranno la pubblicazione. Ma non posso farne a meno. Forse lo scrivere ha, per me, una funzione liberatoria. Un sogno: che un mio racconto o un mio romanzo diventi un film.

(Intervista del 2 febbraio 2021)

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